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Spesso, lei scrive partendo dai miei spunti (o sputi) di riflessione, ed ora io attingo da un suo pensiero (o è stato il mio?) che si è fuso col mio, attingo da un suo stato d’animo, che, checché se ne dica, è a mio parere dolce. Ecco, mi ritrovo a pensare alla mia campana che mi impedisce di vedere o di poter solo pensare di vedere qualcosa al suo esterno. Mi rendo conto e ringrazio me stesso d’essermi forgiato la mia campana, protezione da me stesso, via unica di sopravvivenza, in un presente senza futuro.

Ma, alle volte riesco a sbirciare da delle fenditure larghe appena un ciglio e cado, sprofondando nei miei pensieri. E cade ogni mia certezza, azione o riflessione, solo un pensiero mi pare ragionevole e reale. Non hanno senso i miei studi, le ore passate all’università, i miei libri, i miei scritti, i miei film, le mie passioni, le mie amicizie, la mia famiglia; io no ho senso. E mi viene da pormi davanti ad uno specchio ed urlare una catena di VAFFANCULO (come Edward Norton ne “la 25° ora” di Spike Lee) il primo a me, ma poi ci ripenso perché il riflesso rimanderebbe una immagine che odierei, che mi farebbe ancora di più abbattere la mia campana. Mi sono sempre chiesto se ho più desiderio di vita o di morte. Non mi so rispondere. Cerco di non pensarci, di ricomporre plexiglass dopo plexiglass la campana e salvarmi da me stesso...

Ma quando tutto finirà, l’università e il resto, cosa mi salverà da me stesso? Ho l’impressione che sarò costretto a vivere longevamente con in corpo la mia angoscia e il mio dissidio che circolano nelle vene, con il tremendo magone di non aver cacciato le palle per scegliere o una o l’altra.