
Già è finito il tuo tempo.
Come il bianco coniglio, hai corso
Coi numeri che t’uscivano dal lembo
Del panciotto, come sbuffi dopo un sorso
D’acqua gelata. Non erano ore le tue;
erano altra cosa, una realtà altra –
un felice squarcio nell’Infinito. I due
soli piani che conosciamo fusi in un’ultra
sfera di atemporalità. Ma noi continuiamo
a correre, incespicando nel conto irreale
delle ore, secondi, minuti, anni e ritorniamo
a pensare a giorni, mesi, secoli, decadi. Astrale
congiungimento di forze e colori: le tue piogge.
Tic-tac-tic-tac-pausa: hai esaurito le tue stille,
Aprile, d’ogni genere d’umori, calori, e fogge
Ed ora bada al tuo sole dai cento toni e mille
Gradi. Culla i dolci pargoli della morte, in terra
Fredda e umida siccome non odono la tua ninna,
asciuga loro le ossa, riempili di vitali fiori, serra
i tuoi umori in un dolce languore di manto. Tintinna
già il vento estivo, che ruba la morte alla vita.
Ed io sento schiaffi e calci di ricordi lontani.
Il viso mi diventa come dopo la piccola morte l’ignita
Guancia e corro anch’io attraverso un bosco d’inani
Numeri e di foglie ingiallite – per non ricordare,
per non pensare. E non mi curo delle mie vesti lise,
del sudore imperlato sul viso, delle braccia – mare
in fortunale, inquiete onde – delle gambe menadi. Mise
uno specchio, si dice, in un bosco, l’Eterno – passaggio
attraverso la Sua verità, ma solo i d’animo puri
avrebbero squarciato il velo. Gl’altri, per retaggio,
avrebbero visto sé stessi riflessi...





